La Nato in Libia riapre il capitolo delle guerre coloniali

Sergio Ricaldone | L'Ernesto 23/05/2011

A fronte delle rivolte di massa che stanno sconvolgendo il mondo arabo assistiamo allo sforzo mediatico per ricondurle tutte ad un'unica motivazione che avrebbe acceso ovunque la miccia delle ribellioni, a Tunisi come al Cairo, a Tripoli come a Damasco, in nome della democrazia e dei diritti umani, intesi ovviamente come modello occidentale esportabile con le buone o con le cattive. Purtroppo questa volta, a giudicare dalla caotica confusione che regna nello scomparso movimento pacifista, la campagna ha colpito nel segno.

Il problema del pane e della miseria nera da Terzo mondo, fattore scatenante delle rivolte, specie lungo la valle del Nilo, è stato costantemente ignorato o mantenuto sotto traccia. In ogni caso ognuna delle rivolte (apparentemente sedate ma lungi dall'essere concluse) presentano diversità rilevanti da paese a paese e meritano pertanto letture e risposte diverse. Il ruolo delle componenti di sinistra nazionalista, democratiche o comuniste nelle rivolte arabe è ovunque minoritario e al momento ininfluente. L'egemonia culturale è nelle mani dell'islam politico che, pur nelle sue varianti "radicali" o "moderate", non mira a sbocchi progressisti e antimperialisti ma piuttosto a contenere le spinte più avanzate del popolo insorto, mantenendo i suoi bisogni materiali entro i limiti della sfera spirituale dei precetti coranici, sostanzialmente funzionali agli interessi della borghesia compradora. L'imperialismo occidentale non teme la presa del potere da parte delle forze islamiche moderate né quello delle caste militari con le quali non gli è mai stato difficile raggiungere compromessi.

Ma è soprattutto la guerra che sta devastando la Libia che richiede un'attenta riflessione in quanto certe posizioni emerse nella sinistra sulle vicende libiche (che sento esprimere regolarmente a Radio Popolare) mostrano, più o meno come ai tempi della guerra Nato contro la Jugoslavia, una forma di "dogmatismo storico" (quella del "popolo che insorge contro il tiranno cattivo"). Succede dai lontani tempi di Kronstadt ogni qualvolta la sinistra si trova a fare i conti con qualsiasi forma di sollevazione popolare, a prescindere dalle ragioni oggettive che l'hanno provocata e da chi la cavalca.

Soppesando senza ipocrisie le finalità dei "ribelli" di Bengasi si può affermare che la loro insurrezione contro il governo di Tripoli ha scopi ben diversi da quella di liberare il popolo dalla fame e la miseria. In Libia non è scoppiata una rivolta spontanea per il pane simile a quella egiziana o tunisina. Il popolo libico non è ridotto alla fame o in condizioni di degrado sociale come quelle osservabili nelle sterminate periferie del Cairo o lungo la valle del Nilo. Anzi, in alcuni decenni il "tiranno" di Tripoli ha trasformato il proprio paese, da uno dei più poveri e affamati del mondo qual era ai tempi della "democratica" monarchia di Re Idris, in uno dei più moderni del continente africano, facendo uscire il popolo libico da una condizione di estrema arretratezza e dando al paese, sia pure nella discutibile versione coranica del Libro verde, una legislazione avanzata che ha imposto pesanti limitazioni alla proprietà terriera, la nazionalizzazione delle grandi imprese, l'alfabetizzazione di massa, la promozione sociale delle donne. Obbiettivi che sono comuni a tutte le sinistre del pianeta, mentre sono condannate con orrore dai tirannici regimi dell'Arabia Saudita e degli Emirati arabi, ora alleati della Nato nella guerra contro Gheddafi. Sono gli stessi ribelli di Bengasi a non lamentare il tema della fame ma ad invocare la mancanza di libertà positiva.

E' innegabile che una parte della popolazione della Cirenaica abbia assunto posizioni antigovernative alimentate, oltre che da antiche divisioni storiche e tribali con la Tripolitania, anche dalle misure repressive e, soprattutto, dalle teatrali sceneggiate di Gheddafi a sostegno della svolta economica liberista annunciata dal governo libico nel 2001. Governo allora capeggiato dal primogenito del colonnello, Seif al Islam e dal primo ministro ultraliberista Shucri Ghanem. Svolta che, dopo anni di isolamento e di embargo, ha permesso al colonnello di "normalizzare" i rapporti con l'imperialismo euro atlantico. E' stata una spericolata operazione di realpolitik costata però abbastanza cara in termini di sacrifici al popolo libico e perciò osteggiata apertamente dai "comitati rivoluzionari". Però attenzione! prima di emettere sentenze sbrigative teniamo presente che, nonostante tutto, in Tripolitania la maggioranza dei libici continua a sostenere il proprio governo.

Evitiamo di commettere gli stessi errori compiuti durante l'attacco Nato contro la Jugoslavia quando dei compagni si schierarono, senza se e senza ma, con l'UCK kosovara e contro il "tiranno" Milosevic. Sappiamo bene come è finita quella sciagurata guerra: nel Kosovo è stata costruita la più grande base militare americana del pianeta, mentre il governo dell'UCK è diventato il centro europeo del traffico di droga e del crimine organizzato. In compenso 300 mila serbi sono stati espulsi a mano armata dalle loro case e derubati delle loro proprietà. Resto perciò esterefatto quando sento persone di sinistra con un nome e un passato monumentale come Rossana Rossanda, accettare l'intervento Nato a sostegno degli insorti di Bengasi.

Credo che prima di approvare l'intervento "umanitario", come hanno fatto gli europarlamentari della "sinistra europea", sia opportuno collocare le vicende interne libiche anche nel loro contesto geopolitico ricordando i forti legami che il governo libico ha costruito negli scorsi decenni con i movimenti anticoloniali africani, per capire le ragioni della solidarietà espressa a Tripoli dai paesi di prima linea del fronte antimperialista, sopratutto da Cuba e Venezuela, nonché gli sforzi compiuti in sede ONU dalla Cina, Russia e Unione africana per ridurre al minimo i danni di un'aggressione apparsa ormai inevitabile anche senza l'avvallo del Consiglio di Sicurezza.

Occorre anche dare risposte ad alcune domande cominciando col chiedersi chi sono questi ribelli che si rifanno alla monarchia di Re Idris e da chi sono sostenuti e finanziati? Quale è il loro modello di democrazia e quali diritti umani intendono riportare in un paese che gode del più alto livello di vita e di consumi primari di tutta l'Africa? Quali interessi rappresentano? Perché i loro più accaniti sostenitori sono i regimi ultrareazionari dell'Arabia Saudita e degli Emirati del Golfo ( gli stessi che nel Barhein e nello Yemen sparano sulle folle in rivolta)? Per quale ragione l'epicentro dello scontro militare in Libia è situato nei terminali petroliferi? Perché al loro fianco operano consiglieri militari e agenti dei servizi anglo-francesi e perché la bandiera sventolata a Bengasi accanto a quella monarchica è il tricolore francese?

Ecco, questo insistente sventolio del tricolore francese (anziché la solita bandiera a stelle e strisce) ha fatto sorgere qualche interrogativo sulle contraddizioni esplose nell'Alleanza Atlantica nei giorni precedenti l'attacco: per la prima volta è stata la Francia di Sarkozy a sottrarre ad Obama il ruolo di punta più bellicoso e oltranzista in questa guerra contro la Libia, con la Germania contraria mentre la Casa Bianca e il Pentagono tenevano il piede sul freno. Perciò se l'inquilino dell'Eliseo gioca oggi la partita libica a carte scoperte e con molta arroganza non è superfluo ricordare che, prima di lui, tutti i presidenti francesi che si sono alternati all'Eliseo, dalla Quarta Repubblica in poi, non si sono mai dissociati dall'antica vocazione coloniale della Terza Repubblica.

Il tutto è ricominciato col massacro del Setif nel '45, in Algeria, continuato con la guerra d'Indocina, poi con l'aggressione anglo-francese al Canale di Suez nel '56, fino al genocidio ruandese del '94, compiuto dalle milizie hutu sotto lo sguardo impassibile dei parà francesi. Ma anche dopo in Congo, in Costa d'Avorio e altrove è stato un susseguirsi di interventi tesi a mantenere con qualsiasi mezzo il dominio di Parigi in tutti i possedimenti coloniali diventati formalmente indipendenti e insidiati dal concorrente imperialismo americano.

Attualmente la Francia mantiene accordi militari con 23 paesi africani e dispone di grandi basi militari in 7 di questi paesi. La cellula coloniale africana installata da De Gaulle all'Eliseo ha proseguito le sue attività eversive per decenni al servizio di tutti i presidenti eletti, da Pompidou a Giscard, da Mitterand a Chirac a Sarkozy. Il "mitico" personaggio che ha sempre diretto nell'ombra questa cellula, Jaques Focart, ora passato a miglior vita, ha organizzato più colpi di stato e assassini di presidenti e capi politici africani - inclusi Lumumba, Mulele e Kabila - di quanti capelli avesse in testa. Sempre col supporto della Legione Straniera e dei due prezzolati soldati di ventura, Bob Denard e Paul Barril, titolari della più agguerrita agenzia mercenaria di tutta l'Africa con sede in Togo che hanno reclutato e comandato, con il pieno sostegno finanziario e tecnico della potente Total, le bande di gaglioffi mercenari che hanno compiuto, ben lontano dagli occhi indiscreti delle telecamere e in concorrenza con gli squadroni della morte gestiti dalla CIA, massacri indiscriminati di intere etnie africane. L'unica volta che gli è andata male e stata quando, questi esemplari difensori dei diritti umani, hanno tentato di fermare con i carri armati i banyamulenge di Kabila in marcia verso Kinsasha.

Ora Sarkozy, cambiata la squadra dell'Eliseo, continua con mezzi più sofisticati e sempre a mano armata, i colpi di stato e gli interventi nelle ex colonie africane. Invece i committenti sono sempre gli stessi, la Total in primis e le grandi multinazionali francesi.

Basta allungare lo sguardo sotto il Sahara e vedere quello che è successo in Costa d'Avorio in queste settimane. La Legione straniera è da tempo presente in forze nella capitale, Adbijian. Anche in questa piccolo territorio del Golfo di Guinea il lavoro sporco è stato compiuto dai bombardieri di Parigi e dai parà della Legione per rimettere al potere Ouattara, l'uomo di fiducia di Parigi e del FMI. In nome del petrolio ma anche del cacao e dei diamanti.

Il riemergere della "grandeur" militare francese aiuta a capire l'impazienza di Sarkozy (e della Total) di scatenare contro la Libia i suoi Mirage con o senza la benedizione dell'Onu e quella dell'esitante Obama, che poi, bongrè malgrè, è arrivata insieme con i 110 missili sparati in poche ore dalla quarta flotta americana su Tripoli. E più i giorni passano e più la guerra contro la Libia assomiglia come una goccia d'acqua all'aggressione anglo francese del 1956 contro l'Egitto per mantenere il controllo del Canale di Suez.

E' stato detto che questa volta persino la Lega araba si è schierata militarmente contro Gheddafi. Ma questa, anziché un attenuante, è un aggravante. La Lega araba, oltre ad essere un protettorato americano è un forziere economico e bancario fondato sui petrodollari dell'Arabia Saudita e degli Emirati che con la democrazia e i diritti umani non hanno nulla a che vedere.

Viceversa l'Unione africana, che ha sperimentato e conosce bene le radici coloniali dell'oltranzismo francese (oltre che gli appetiti dell'imperialismo americano) si è opposta fin dall'inizio della rivolta libica all'intervento militare e, a maggior ragione, a quello della Nato. E siccome il peso e le dimensioni dell'Unione africana non sono quelle del Lussemburgo, è facile capire perchè stia ora lavorando, con alla testa il presidente sudafricano Zuma, per riportare la pace e la ragione in quel di Tripoli e di Bengasi.

Intendiamoci, ci sono tantissime ragioni per detestare e rifiutare sdegnati i comportamenti e il modello autoritario del colonnello libico. Il suo anticomunismo è arcinoto. In nome di Allah i comunisti li ha messi in galera e, insieme al suo collega egiziano Nasser, ha dato una mano a reprimerli duramente anche in altri paesi del mondo arabo come il Sudan, lo Yemen, la Siria e l'Iraq. Sappiamo come le sue plateali ambizioni, panarabe prima e panafricane poi, unite al suo ostentato integralismo religioso, lo hanno indotto a compiere anche errori politici clamorosi che lo hanno reso inviso alla sinistra europea.

E tuttavia, se non vogliamo essere ipocriti e restare coerenti con la scuola di realpolitik, praticata sempre con lungimiranza tattica dai comunisti, prima di emettere giudizi avventati è opportuno giudicare le vicende libiche nella loro dimensione geopolitica.

Gli scopi veri di questa guerra sono stati brillantemente denunciati da molti autorevoli analisti politici e sono riconducibili alle enormi riserve di petrolio particolarmente pregiato estratto dai pozzi sahariani. La posta in gioco è dunque strategica e ha ben poco a che fare con i diritti umani del popolo libico ma vuole essere un punto di partenza per ridisegnare la mappa economica e politica dell'intera Africa che blocchi il dilagare della presenza finanziaria cinese, e riporti i principali centri energetici del continente sotto il controllo dell'imperialismo euroamericano. L'impazienza bellicosa di Sarkozy e i colpi bassi che si sono scambiati Washington e Parigi all'inizio della "guerra umanitaria" contro Tripoli spiega la volontà di Parigi di rioccupare una posizione politica e militare di prima linea, non più subalterna, nell'ambizioso programma neocoloniale che si è data la coalizione dei paesi Nato, ma si tratta ovviamente di una scaramuccia ricomponibile. Il vero nemico del neocolonialismo atlantico sta a Pechino ed è il fascino del suo modello di sviluppo e la potenza dei capitali cinesi a preoccupare l'Occidente e a renderlo più aggressivo. E tutto lascia supporre che sia in preparazione anche lo sbarco e l'invasione della Libia.

Non sono poche le ragioni che suggeriscono cautela da parte nostra su un tema così terribile come quello della guerra. Le critiche e le prese di distanza dal regime di Gheddafi sono legittime ma credo che alla fine debba essere il popolo libico a decidere. Ricordiamoci che quando milioni di persone sono scese in piazza , nel 2003, contro l'aggressione americana all'Iraq non l'hanno fatto per simpatia nei confronti di Saddam Hussein. Perché oggi si assume un atteggiamento così diverso sulla Libia? E' una domanda sulla quale dovremo attentamente riflettere se non vogliamo confonderci con i fautori delle guerre umanitarie.