INIZIATIVA DELL'11 NOVEMBRE 2012: INTERVENTO DI S. PUTTINI

Siria: guerra civile o ingerenza imperialista?
Relazione tenuta l’11 novembre 2012 alla Casa Rossa
All’iniziativa del Comitato contro la guerra di Milano

Ci troviamo di fronte all’ennesima tragedia e di fronte all’ennesimo pericolo di un’altra guerra della Nato alle porte di casa.
Eppure dopo la guerra fredda ci era stata raccontata la favola di un mondo che avrebbe vissuto nella pace, nella prosperità, nel benessere. I fatti hanno parlato una lingua molto diversa. La Triade dei paesi capitalistici avanzati ha assunto da allora una postura sempre più aggressiva verso l’esterno ed anche verso l’interno, verso i propri popoli e verso i propri lavoratori.

Dopo la guerra fredda la fine del campo socialista ha permesso agli Stati Uniti, in quanto unica superpotenza rimasta, di cercare di imporre al mondo un ordine unipolare che avesse in Washington l’unico centro decisionale. Gli Stati Uniti hanno cercato di raggiungere questo ambizioso obiettivo sviluppando alcune iniziative: cercando di ottenere una netta supremazia nella armi strategiche (va inserito in questo contesto la decisione di costruire uno scudo antimissilistico che dovrebbe annichilire la capacità di dissuasione della Russia e della Cina); puntando al controllo diretto delle principali fonti energetiche (ed è la ragione per la quale il Medio oriente e l’Asia centrale hanno assunto un ruolo sempre più di rilievo nell’agenda delle amministrazioni statunitensi); e infine scardinando la sovranità delle nazioni, perché la sovranità nazionale è il principale argine che si trovano di fronte nel loro tentativo di penetrazione.

Questo tentativo di egemonia ha attraversato due fasi: la prima nel decennio immediatamente successivo alla caduta del muro di Berlino, fino alla guerra alla Jugoslavia, è stata una fase nella quale gli Usa hanno avanzato senza incontrare alcuna resistenza fin nel cuore dell’Europa; la seconda è invece caratterizzata da un contrasto molto più aspro a causa dell’ascesa della Cina, della riemersione della Russia come un attore geopolitico significativo e dell’emancipazione dell’America latina. In questa fase gli Usa si sono trovato di fronte a paesi che non erano più disposti a cedere alle loro ambizioni e a subire passivamente le loro iniziative. Questi paesi hanno cercato di concertarsi tra loro in funzione antiegemonica. Siamo in una fase di transizione tra un tentativo di equilibrio unipolare palesemente in crisi e l’emergere di un equilibrio multipolare.
Questa sfida matura in un contesto che per gli Usa è, dal punto di vista economico, sempre più difficile. A Washington hanno deciso di ricorrere sempre più massicciamente alle armi e alle operazioni di destabilizzazione, campi nei quali gli Usa hanno oggi una schiacciante supremazia.

- Un lungo elenco di aggressioni e mistificazioni

Tutte le guerre che si sono succedute dalla fine della guerra fredda in poi sono state anticipate e accompagnate da motivazione di volta in volta diverse. Una volta si trattava di combattere la minaccia rappresentata da presunte armi di distruzione di massa che minacciavano l’umanità (anche se erano possedute da paesi del Terzo mondo che non disponevano nemmeno di pezzi di ricambio per le armi convenzionali); un’altra volata erano guerre preventive, per sventare minacce potenziali o incombenti (anche se il concetto di guerra preventiva è esplicitamente condannato dalle Nazioni unite ed equiparato nei fatti ad una aggressione). Si è poi sostenuta la tesi delle guerre umanitarie, scusa che viene agitata anche oggi nei confronti della tragedia siriana, fino ad arrivare alle guerre per l’esportazione della democrazia e della libertà. Occorre intendersi sull’utilizzo dei termini e del loro significato. Quando parlano di libertà a Washington intendono parlare di libertà dei mercati, cioè dei pezzi grossi che decidono l’andamento niente affatto naturale dei mercati, per i liberali del resto da sempre la libertà del mercato è un aspetto essenziale della libertà individuale.

Cercare delle motivazioni che possano giustificare la propria supremazia, le proprie aggressioni, le proprie opere di destabilizzazione da parte dei paesi che sono avanzati dal punti di vista economico e tecnologico e che sono al centro del sistema di potere mondiale è una storia vecchia: è la storia vecchia del colonialismo.
Chi vuole dominare cerca sempre di giustificare la propria supremazia: lo fa ricorrendo alla logica dell’inferiorità razziale dei popoli sottoposti e depredati, oppure ricorrendo alla religione (come durante la colonizzazione del Nuovo Mondo, quando lo sterminio degli indios veniva giustificato sulla base della loro non conoscenza del Cristo, motivo per cui erano condannati alla dannazione eterna). In epoche successive, quando prevalsero nella cultura occidentale altre idee, si parlò di “fardello dell’uomo bianco”. Nell’età dell’imperialismo, si riteneva che gli occidentali dovessero portare la civilizzazione agli altri popoli, i quali dovevano essere accompagnati per mano lungo la via del progresso. Sappiamo oggi che in realtà dietro a tutte queste considerazioni c’era semplicemente il tentativo di approfittare di quei popoli e delle risorse delle loro terre.
Nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale sembrava che le stesse opinioni pubbliche occidentali avessero preso coscienza di questo inganno, oggi invece pare che questa consapevolezza sia smarrita. A causa di un disarmo culturale ed ideologico profondo abbiamo assistito al trionfo della propaganda veicolata dai mass media, alla torsione degli stessi principi che erano propri dei movimenti popolari e di emancipazione, (con le idee di democrazia e di libertà che vengono strumentalizzate per giustificare le aggressioni imperialiste). Assistiamo ad un colossale stravolgimento dei fatti, con gli Usa che imputano ad altri i crimini che loro stessi ed i loro alleati sono i primi a compiere sistematicamente e su vasta scala: dall’appoggio a movimenti terroristici, alla violazione dei diritti umani e del diritto internazionale, alle ingerenze nella politica interna di altri paesi.

Un tempo il movimento operaio in Occidente aveva preso coscienza del pericolo imperialista e delle sue armi. Lenin aveva individuato nell’imperialismo una macchina che stritolava allo stesso tempo sia i popoli delle metropoli coloniali che i popoli soggetti alla colonizzazione. Lenin per fare avanzare la lotta di classe costruì sulla base della sua analisi dell’imperialismo il progetto di alleanza tra i movimenti popolari guidati dal proletariato nei paesi capitalistici avanzati con i movimenti di liberazione nazionale dei popoli schiacciati dal colonialismo e dal neocolonialismo. Lo fece in polemica con i partiti riformisti e socialdemocratici che all’epoca erano ancora egemoni all’interno del movimento operaio occidentale, i quali non riuscivano a cogliere il legame che correva tra la lotta di emancipazione nelle metropoli occidentali e la lotta per l’indipendenza dei popoli coloniali. Finivano così per avallare le azioni dell’imperialismo. Ai riformisti e ai socialdemocratici pareva pacifico che, data la superiorità economica e industriale raggiunta dall’Occidente, sarebbe spettato all’Occidente accompagnare per mano gli altri popoli, amministrarli e prepararli a divenire adulti. Questo giustificava ai loro occhi l’esercizio di una sorta di “tutela”. Non si avvedevano che invece spettava a quei popoli cercare la propria strada e che la loro ribellione all’imperialismo avrebbe favorito la lotta di classe in Occidente, spostando i rapporti di forza a livello mondiale.

Quando ascoltiamo le motivazioni addotte per intervenire nei paesi del Sud del mondo non può non venire in mente la motivazione ufficiale con la quale l’Italia cercò di soggiogare l’Etiopia nel 1935-36. Anche allora si rappresentava il nemico come un regime schiavista e il Negus come un autocrate brutale. Questo era indubbiamente vero, nel caso dell’Etiopia. Ma non era vero che gli italiani andassero lì a portare la libertà e noi oggi disponiamo di abbondanti ricostruzioni storiche che hanno documentato i crimini e gli eccidi compiuti in quei luoghi e l’utilizzo dei gas contro la popolazione civile. Potremmo solo aggiungere che, a differenza dell’Etiopia di Hailé Selassié, molti dei paesi del Sud del mondo aggrediti in questi anni avevano regimi politici molto diversi dalle caricature demonizzanti che i media hanno loro cucito addosso.

- Il peso della Siria e della storia di un antagonismo irriducibile

Nel contesto caratterizzato dal tentativo unipolare statunitense l’importanza del Vicino oriente è abbastanza ovvia, sia per le risorse che la regione custodisce nel proprio sottosuolo, sia per la posizione geografica a cavallo tra tre continenti. Non a caso questa posizione è costata un numero altissimo di guerre sin dai tempi antichi.
L’importanza della Siria non è data dalle sue ricchezze minerarie che, benché presenti, sono assolutamente inferiori e nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dei giganti energetici che sono prossimi al paese: Iran, Iraq, petromonarchie del Golfo.
La Siria è però un attore di primo piano a livello regionale, è cioè un attore le cui scelte hanno influenza su tutta la regione, ed è un paese che ha una storia di coerente opposizione ai progetti dell’imperialismo per il Vicino oriente. Dall’indipendenza ad oggi ha una storia di chiara militanza antimperialista e ha rappresentato un antemurale di fronte all’Occidente e a Israele che ha impedito a queste forze di ridisegnare la mappa del Medio Oriente sulla base del loro esclusivo interesse. La storia del rapporto con gli Usa è la storia di un antagonismo irriducibile.

La Siria è stata la culla del nazionalismo arabo. All’epoca del mandato francese negli anni ‘20 e ‘30 il paese è stato scosso da rivolte antifrancesi (può esser interessante notare che la bandiera del mandato è la stessa che oggi issano i sostenitori del così detto Esercito siriano libero).
La Siria è stata l’alveo nel quale si sono sviluppate le idee panarabe, che individuavano la strada per l’emancipazione del popolo arabo nella composizione della frammentazione in tanti staterelli, frammentazione che era stata imposta da Francia e Gran Bretagna alla regione alla fine del primo conflitto mondiale.
Uno degli ambiti in cui il nazionalismo arabo nasce è costituito dalla comunità cristiana siriana e il fondatore del Baath (partito socialista della rinascita araba) è Michel Aflaq, cristiano. Accanto a lui operano altre figure, in parte provenienti da minoranze confessionali. Proprio perché vengono da minoranze religiose e da confessioni diverse i fondatori del Baath maturano l’idea che il mondo arabo debba unirsi superando le divisioni confessionali che lo attraversano. Che l’Islam sia la religione egemone questo è ovvio, anche se anch’essa è molto articolata al suo interno e non solo lungo la dicotomia sunniti-sciiti. Hanno chiaro che l’unità del mondo arabo presuppone il superamento delle divisioni confessionali. L’Islam resta ai loro occhi sicuramente un punto di riferimento culturale irrinunciabile e storicamente non può essere che così, visto che il mondo arabo è divenuto una grande civiltà grazie all’Islam. Ma ai loro occhi non si può governare col Corano. Per questo propugnano un nazionalismo laico, rispettoso e tollerante delle diverse confessioni religiose. A questo pensiero si rifà il Baath.
L’ostacolo all’emancipazione del popolo arabo è visto nelle forze imperialiste e per tanto si impone la necessità di costruite un fronte con tutte le forze che lottano contro le potenze imperialiste. Durante il processo di decolonizzazione che segue il secondo conflitto mondiale il mondo arabo svolge un ruolo di punta: il presidente egiziano Nasser è uno dei leader del movimento dei non allineati. Egitto e Siria rifiutano i patti militari proposti dall’Occidente, che mira a fagocitarli nella propria orbita per circondare il campo socialista. Questi paesi scelgono il neutralismo. Il neutralismo arabo, il neutralismo di questi paesi, viene definito attivo perché è diverso da quello indiano che si ritiene equidistante tra i due blocchi; i neutralisti attivi pur restando al di fuori dei blocchi hanno chiaro che il nemico è l’Occidente imperialista che cerca di condizionarne i progetti di emancipazione e che l’Urss rappresenta l’alleato, la sponda, per resistere ai diktat e alle pressioni delle potenze occidentali.

La sfida costituita dal nazionalismo arabo in una regione cruciale e nel pieno della guerra fredda non poteva essere tollerata a cuor leggero dall’Occidente. I tentativi di boicottare questi paesi e di condizionare il loro processo di emancipazione sono stati numerosissimi.
Con la guerra di Suez (1956) Francia e Gran Bretagna hanno cercato (con il sostegno israeliano) di sbarazzarsi di Nasser e negli stessi anni i servizi segreti inglesi hanno cercato di cambiare il corso della politica siriana promuovendo un colpo di stato (operazione “Struggle”). Ma entrambi i tentativi si sono risolti in un clamoroso fiasco e, per contraccolpo, si è registrata la crescente influenza delle correnti nazionaliste in tutta la regione.

Gli Stati Uniti in questo quadro cercano un punto di riferimento che possa fare da contraltare a questa ondata nazionalista e lo individuano, al crepuscolo dell’amministrazione Eisenhower, nell’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita era già un partner economico importante degli Usa dal patto del Quincy del 1943. Ora a Washington arrivano alla conclusione che sia necessario stringere un alleanza politica e con il piano “Omega” cercano di facilitare l’ascesa ad un ruolo regionale importante della Casa reale saudita. Il fatto che il paese disponga di ingenti ricchezze minerarie e che custodisca i luoghi sacri dell’Islam sembra garantire sia le basi materiali che il prestigio necessario per spendere questa carta nel mondo arabo.

La Siria dagli anni Cinquanta ad oggi è rimasta coerentemente in campo contro l’imperialismo, per cercare di portare avanti una strada diversa di sviluppo e per arginare Israele e gli Usa nella regione. Lo ha fatto attraverso lo sfortunato processo di unità con l’Egitto (Repubblica Araba Unita); lo ha fatto dopo la presa del potere da parte del Baath nel 1966; lo ha fatto nonostante la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni (1967) che ha permesso a Israele di occupare il Golan, ad un tiro di schioppo dalla capitale siriana, Damasco. Lo ha fatto anche nel difficile 1970, anno in cui muore Nasser e si consuma la tragedia del “settembre nero” (repressione dei campi profughi palestinesi in Giordania). Proprio nel 1970 all’interno della stessa leadership siriana si svolge un regolamento di conti sull’indirizzo da dare al paese perché la Siria possa restare in piedi nonostante la difficile piega che hanno preso gli eventi. Emerge in questo contesto Hafez el-Assad, già ministro della Difesa e figura importante della rivoluzione del ’66, padre dell’attuale presidente. Assad viene da una minoranza, gli alawiti. Proprio per la sua formazione baathista e panaraba (al contrario di quanto ci viene raccontato) non pensa minimamente a costruire uno stato basato sul potere della sua minoranza ma punta a costruire uno stato multiconfessionale e laico che possa essere solido e compatto di fronte alle sfide impostegli da nemici agguerriti.

Certo è indicativo che molti sostenitori del Baath de di altre correnti progressiste (è il caso dei partiti comunisti, in Siria e non solo) vengano dalle minoranze religiose, perché molte di queste minoranze nella storia recente di questi paesi erano state discriminate ed è naturale che divenissero l’ambito privilegiato di reclutamento da parte di forze che puntavano ad un’emancipazione politica e sociale. (Una delle caratteristiche proprie del Baath è il riferimento a un socialismo, non marxista, che però punta a rimuovere le diseguaglianze che dal punto di vista economico e sociale sono presenti nella società). Quindi è normale che queste forze abbiano pescato e peschino ancora largamente nelle comunità costituite dalle minoranze confessionali.
Ma questo processo non ha nulla a che vedere con la presunta usurpazione del potere da parte di tale o talaltra minoranza, come vorrebbe la propaganda saudita e occidentale.
Se guardate all’organigramma degli apparati dello stato siriano vi renderete conto che a fianco della promozione di queste minoranze vi è una presenza massiccia della componente sunnita, che è largamente maggioritaria anche nel paese reale. Ma una delle grandi conquiste del regime è stata quella di non aver mai discriminato i suoi cittadini sulla base della propria appartenenza confessionale. Risultato non certo banale, come attestano quasi ogni giorno gli eventi di violenza settaria, razzista e xenofoba in ogni angolo del pianeta.

La Siria è rimasta in campo anche successivamente all’uscita di scena dell’Egitto a seguito della pace separata con Israele stabilita a Camp David. Dopo tale svolta la Siria restava l’unico paese arabo ad avere un confine con Israele che si dimostrasse determinata a frenarne le ambizioni. Ha cercato di restare n campo anche durante la pericolosa guerra civile libanese (1975-1991) nella quale Israele e gli Usa avevano scommesso per trasformare il Libano in un satellite israeliano e occidentale e spingere la Siria a capitolare. Grazie ad una tessitura abile delle sue relazioni internazionali e regionali la Siria riuscì a vincere la difficile partita a scacchi libanese. Strinse ancor di più l’alleanza con l’Unione Sovietica. Strinse un’alleanza con la nuova Repubblica islamica di Khomeiny, che aveva preso il potere nel 1979. Nonostante la differenza ideologica abissale tra i due regimi, Assad scorge che l’avvento degli ayatollah contribuisce ad imprimere una svolta radicale alla politica estera iraniana e schiera l’Iran nel campo antimperialista (fino ad allora, con lo Scià, l’Iran era rimasto un punto di riferimento per gli Usa nella regione). Lo stesso islamismo di cui Khomeiny si fa promotore è un islamismo assai diverso da quello predicato dall’Arabia Saudita. È un islamismo rivoluzionario, sia al suo interno (perché recepisce determinate istanze egualitarie) sia sul piano delle relazioni internazionali (perché coerentemente antimperialista). Si salda così l’asse della resistenza tra Siria ed Iran che dura tuttora.

Sul fronte interno è da rimarcare che Assad contribuisce all’apertura nei confronti di altre forze politiche disposte a convergere sulla sua politica estera e sul suo programma di costruzione di uno stato laico dagli obiettivi socialisteggianti. A tal fine viene fondato il Fronte nazionale progressista cui aderiscono anche il Partito comunista siriano e l’Alleanza socialista araba (nasseriana). In tale Fronte al Baath venne riconosciuto il ruolo di partito-guida, fino alle riforme costituzionali adottate recentemente da Bashar Assad, che hanno tolto giuridicamente al Baath questo ruolo.

- La Siria nel mirino

Nel dopoguerra fredda gli Usa hanno tentato più volte di spezzare l’asse della resistenza nella regione, asse che dalla Siria e dall’Iran si era esteso al Libano grazie alla vittoria delle forze patriottiche nella guerra civile.
Il tentativo di utilizzare il Libano come corridoio per assediare la Siria e costringerla a capitolare al fine di isolare l’Iran nella regione è stato compiuto più volte in questi anni.
A seguito dell’assassinio del premier libanese Hariri nel 2005 le truppe siriane sono costrette a lasciare il vicino paese. Il Libano resta sostanzialmente disarmato di fronte a Israele e nel 2006 Tel Aviv si imbarca nell’ennesima avventura bellica. Cerca di invadere il Libano ma viene fermata dalla resistenza locale. Nel 2008 si tenta allora di fare implodere il Libano dall’interno, tramite l’infiltrazione di militanti islamismi radicali legati all’Arabia Saudita e al network dell’integralismo di matrice wahhabita, che in Occidente viene sbrigativamente raccolto sotto l’etichetta di al-Qaida. L’infiltrazione avviene nel campo profughi palestinese di Nahr-el Bared, nei pressi di Tripoli. Ma la rivolta viene schiacciata. Sempre nel 2008 si cerca di riattizzare scontri settari che sconvolgono Beirut per alcuni giorni, ma le forze patriottiche vincono sul campo e si torna ad una composizione pacifica delle divergenze politiche tra i partiti libanesi.

Evidentemente si è pensato allora di attuare una strategia frontale contro la Siria. Dapprima si è cercato di assorbirla tentandola con proposte di collaborazione economica dietro la contropartita politica dell’abbandono dei suoi alleati nella regione, credendo che Bashar Assad fosse una sorta di Gorbaciov, disposto a segare il ramo sul quale era seduto. Ma questo tentativo si è rivelato infruttuoso.
Quindi si è ricorsi a metodi più muscolari ed attualmente si cerca d piegare la Siria tramite una guerra a bassa intensità, appoggiando una guerriglia che è fiananziata, armata, inquadrata e spesso reclutata dall’esterno.

- Guerra a bassa intensità contro Damasco

È vero che vi sono elementi endogeni nella crisi siriana ma oggi non si può più disconoscere che nella tragedia siriana rivesta un ruolo prevalente il conflitto attizzato dall’esterno. È il segreto di pulcinella che in Siria operino gruppi armati addestrati e inquadrati da un fronte ampio di paesi che vanno dall’Arabia Saudita, al Qatar, alla Turchia, alla Francia, alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e che poggia sull’utilizzo, come ariete, della galassia dei gruppi estremisti dell’integralismo wahhabita. (Wahab è stato un predicatore del ‘700 che sostenne il ritorno alle fondamenta della fede islamica. Vi sono vari tipi di fondamentalismo: il suo si basa sul rifiuto dell’interpretazione dei testi sacri che andrebbero colti nel loro significato letterale. Da qui lui deriva arbitrariamente una proposta oscurantista, retrograda e reazionaria che introduce la sconfessione e l’utilizzo della categoria di eresia verso altre forme di interpretazione della sunna o verso altre minoranze musulmane, come gli sciiti).

L’utilizzo di mercenari e volontari indottrinati all’estremismo wahhabita da parte dell’imperialismo non è una novità. Il battesimo del fuoco per questi gruppi fu la “jihad” benedetta dalla CIA contro la repubblica afghana negli anni ’80 (prima, durante e dopo il coinvolgimento dei sovietici nel conflitto). Successivamente queste bande addestrate alla guerriglia operarono, in modo non dissimile dalle contras che gli Usa allevavano in America centrale contro il Nicaragua, in ogni paese e regione nella quale Washington ritenesse utile innescare operazioni di destabilizzazione e guerre a bassa intensità. Fu così la volta dell’Algeria negli anni ’90, del Caucaso, della Jugoslavia, dell’Asia centrale, dell’Iraq dopo l’occupazione americana per spezzare il fronte della resistenza. Ieri è toccato alla Libia, il cui macello dovrebbe essere di monito, oggi tocca alla Siria. Domani, forse, toccherà ancora all’Algeria.

Oggi in Siria queste componenti sono prevalenti nelle bande armate che infiammano il paese. Predicano la fitna, la guerra fratricida all’interno della comunità dei credenti e l’espulsione violenta delle minoranze cristiane. I predicatori cui fanno riferimento queste bande lanciano parole d’ordine che sono tutto un programma. El Haidan invita a uccidere un terzo dei siriani perché i restanti possano vivere felici; Al-Arur (forse il più seguito) sostiene senza peli sulla lingua che l’obiettivo deve essere la demolizione sistematica dello stato laico e multi confessionale costruito dai siriani nei decenni passati; Al-Qardawi, da Doha, invita alla jihad contro la Russia perché, sostiene, i nemici della Siria non sono quelli che vorrebbero bombardarla, raderla al suolo e poi comprarla per due soldi ma coloro che invece hanno cercato di fermare il massacro ponendo il loro veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e propugnando il dialogo. Questi predicatori si qualificano da soli.

Dietro questi gruppi opera certo la rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, come operano i veleni sparsi nelle coscienze da parte dell’integralismo estremista wahhabita. Ma soprattutto è ben riscontrabile il conflitto che intercorre tra le forze della resistenza all’assoggettamento della regione all’Occidente (le correnti rivoluzionarie, di qualsiasi colore e dottrina) e le correnti reazionarie di cui è vessillifera l’Arabia Saudita che, nei fatti, aprono la regione alla ri-colonizzazione occidentale.

La stampa anglo-americana non tace più il coinvolgimento dietro le quinte del proprio paese e sbandiera persino la presenza delle teste di cuoio occidentali e di unità d’élite esperte in guerriglia e controguerriglia direttamente sul campo, dalla parte delle bande armate.

Le azioni delle Contras sono caratterizzata da efferatezza e violenze inaudite, sia sui prigionieri, sia sulla popolazione civile. Tali violenze sono ormai apertamente documentate e talmente sistematiche che hanno bucato persino il muro di gomma della disinformazione occidentale. Lo Spiegel aveva già reso noto mesi fa delle gesta compiute da una banda nei pressi di Homs, definita “la banda dei becchini”. Il capo degli inquirenti della Commissione dell’ONU sui fatti siriani, Paulo Pinheiro, ha definito la presenza di elementi estremisti in Siria come “inquietante e in crescita” e ha confermato le azioni criminali compiute dalle forze antigovernative parlando di assassini, omicidi extragiudiziali e crimini contro l’umanità.

- Conseguenze e pericoli

Al momento appare chiaro che queste bande riescono a destabilizzare il paese, impedendo lo svolgimento di una vita normale, ma non riescono a rovesciare il governo. La conseguenza delle loro azioni è che il popolo siriano è spinto a stringersi sempre di più attorno a Bashar Assad e attorno alle Forze Armate. Persino coloro che erano estremamente critici nei confronti del governo possono misurare che l’alternativa oggi è il salto nel vuoto e l’inferno delle guerre settarie e della violenza senza fine.
Appare chiaro che l’Esercito siriano libero non è assolutamente un esercito ma un insieme di gruppi dotati di autonomia operativa quasi totale, con grande costernazione degli stessi sponsor americani che vorrebbero poter disporre d una struttura militarmente più efficace sul campo (uno dei motivi del vertice di Doha di questi giorni); è poco siriano, giacché in esso sono presenti mercenari provenienti da ogni dove; è assai poco libero, dipendendo in toto dai suoi finanziatori ed essendo caratterizzato dall’egemonia sul campo delle bande integraliste wahhabite, che inseguono tutto fuorché la democrazia.

Si è così giunti ad un situazione di stallo dalla quale le stesse bande non riescono a uscire. In questo contesto vanno forse inseriti gli incidenti di confine che sono accaduti alla frontiera turco-siriana. Questi incidenti potrebbero essere stati innescati dal tentativo dell’esercito siriano di inseguire le bande, che hanno il loro santuario oltreconfine. Ma, secondo quanto riportato dal “New York Times”, potrebbe anche trattarsi di provocazioni dei gruppi armati per innescare un’escalation ed ottenere un aiuto più diretto da parte dell’Occidente.

A differenza di altri conflitti cui abbiamo assistito in questi anni un eventuale intervento diretto dell’Occidente nel conflitto potrebbe in questo caso non restare assolutamente circoscrivibile. Data la complessità delle reciprocità tra le potenze e data la posta geopolitica sottesa al conflitto il rischio è che l’aggressione alla Siria accenda al lunga miccia di una escalation che potrebbe risucchiare altri attori regionali e internazionali. L’Iran, alleato della Siria, non potrebbe molto probabilmente restare a guardare passivamente, e il suo coinvolgimento nel conflitto trascinerebbe molto probabilmente sia la Russia che la Cina, le quali non possono abbandonare un alleato regionale del calibro dell’Iran nel quadro del braccio di ferro che le oppone a Washington per l’instaurazione di un ordine multipolare delle relazioni internazionali.

Gli ultimi sviluppi registrano il tentativo degli Usa di uscire dall’impasse cercando di costruire un’opposizione più unificata e più credibile. Ma le due cose non vanno molto d’accordo dato il peso determinante necessariamente assunto dalle bande integraliste sul campo. La mancata escalation sembra aver causato costernazione negli alleati locali dell’imperialismo di cui sono chiari indizi sia gli sfoghi di Erdogan sia l’atteggiamento assunto dal partito filo-saudita libanese “Corrente del Futuro”, i cui militanti si sono abbandonati a scontri con polizia ed esercito libanese nei giorni scorsi. Ma, per il momento, gli Usa non avrebbero accettato l’accensione di altri fuochi nella regione. Questo affinché sia chiaro chi dirige l’orchestra.

Chi dirige l’orchestra e che musica si stia suonando in Siria dovrebbe ormai essere chiaro anche a quei gruppi di certa sinistra sinistrata che ancora si fanno arruolare e imbonire dalla propaganda mass-mediatica. Quella che è in corso in Siria non è affatto una rivoluzione, al massimo, dati i suoi prevedibili esiti, potrebbe essere una controrivoluzione. Cosa succederebbe se cadesse Assad? Le conseguenze sarebbero catastrofiche: la Siria cadrebbe preda della violenza settaria, crollerebbero gli edifici della convivenza civile e collasserebbe lo Stato. Basti guardare all’esempio libico. Forse che oggi in Libia vi sia più democrazia, più diritto, più prosperità, meno arbitrio? Tutto è mutato in peggio e la popolazione subisce le più feroci angherie delle milizie, ormai è impossibile persino condurre una normale esistenza: andare al lavoro, mandare i figli a scuola…La Libia è precipitata all’inferno. E’ così che vorrebbero vedere ridotta la Siria coloro che si autoproclamano i suoi “amici”?
La fine della sovranità della Siria renderà impossibile qualsiasi sviluppo democratico, perché senza sovranità non ci può essere nessuna democrazia. La vittoria dell’imperialismo aprirebbe la strada a nuove guerre e aggiungerebbe un altro scalpo alla collezione degli Stati Uniti, lanciati nella loro folle corsa all’egemonia mondiale.